Vivere e scrivere all’incrocio di culture
Ha studiato in Russia, Regno Unito e USA, ha vissuto a lungo col marito in Sudafrica, poi anche con due figli in Australia e ora in Canada, dove oggi insegna alla University of British Columbia. In un mondo che conosce il nomadismo come drammatica scelta di vita di milioni di migranti alla ricerca di un futuro migliore, Arianna Dagnino, giornalista e scrittrice, in Il Quintetto d’Istanbul (Ensemble Edizioni) ha incontrato in un immaginario salotto letterario cinque scrittori che come lei hanno fatto del nomadismo una scelta intellettuale ed esistenziale. Vivere in Paesi diversi, conoscerli a fondo, sfidare barriere e frontiere senza recidere le proprie radici ma arricchendole tra incroci e contaminazioni, in un percorso di ricerca di una nuova identità, transculturale. “Cosmopolita”?, “Apolide?”. Presentando in Italia il suo libro, Arianna ha detto di preferire la definizione… “Italiana di Frontiera”.
- Una cultura viva ha bisogno di dinamismo, confluenze, confronto con l’Altro… anche quando questo avviene in modo doloroso?
“Assolutamente sì. Lo scontro, il conflitto, le tensioni e le ripercussioni anche drammatiche sono inevitabili quando due culture s’incontrano, indipendentemente da quanto i rapporti di forza fra loro siano asimmetrici. Eppure, è proprio dalle dinamiche innescate da questo scontro-incontro che le culture crescono, maturano, si arricchiscono di nuovi saperi, nuove visioni del mondo, in un costante processo di amalgami, ibridazioni, permeazioni. Quando ciò non avviene, quando questa dialettica più o meno tesa s’interrompe, le culture — e con loro intere civiltà — avvizziscono, fino a decadere ed estinguersi. Le chiusure, il rifiuto al confronto con l’Altro, i pensieri unici, le rigide rivendicazioni identitarie che non lasciano spazio alla libera circolazione di punti di vista alternativi (a volte anche antitetici) e il rifiuto al cambiamento da questi generato portano all’immobilismo culturale e, con esso, alla morte delle idee, delle arti, della creatività condivisa. E questo avviene sia che si tratti di totalitarismi politici, sia, a detta di Alberto Manguel (uno dei miei intervistati), che ci si trovi sotto gli effetti consumistici del capitalismo, dove vengono offerti punti di riferimento culturali che difficilmente possono essere messi in discussione”.
- Il nomadismo è fenomeno più che mai attuale. C’è chi invoca muri (anche culturali) per “difendere l’identità” dalle migrazioni, chi sogna società aperte e multiculturali. Ma il transculturalismo va oltre, un nomadismo quasi sempre per scelta che mescola le radici, non solo le esperienze…
“Premessa fondamentale: le società aperte e multiculturali sono un’utopia. Certo, un’utopia positiva a cui è bene tendere. Anche società come il Canada e l’Australia, incentrate su politiche d’impronta multiculturale, non sono sistemi aperti tout court ma operano su un complesso sistema di identificazione e selezione di chi può aver accesso ed essere ospitato entro i loro confini. Senza queste regole, fatte rispettare in maniera ferrea, sarebbe il caos, l’anarchia. La realtà politica opera sulla costante negoziazione e ridefinizione delle barriere, qualunque esse siano — sociali, geografiche, culturali. Non si può prescindere da questo dato di fatto. Anche il neonomadismo dei cosiddetti knowledge workers (i lavoratori della conoscenza) e di tutti coloro che sfruttano le tecnologie digitali per deterritorializzare la propria attività professionale o imprenditoriale opera all’interno di questo complesso sistema di restrizioni, controlli, selezioni.
Questo è quello che accade a livello di società, di sistemi complessi. E a livello individuale?
Le cose stanno un po’ diversamente, a livello dell’individuo, l’unico in cui a mio parere può effettivamente proporsi e svilupparsi un approccio transculturale. Quando parliamo di transcultura parliamo di un certo tipo di sensibilità acquisita attraverso le proprie esperienze di vita transnazionali e che si riflette anche nella propria produzione letteraria e artistica. Se vogliamo generalizzare, significa vivere, pensare, scrivere e creare avendo sempre in mente questa idea che le culture (come le persone del resto) non sono mai uniformi, pure, chiuse in se stesse, autoreferenziali ma sono il frutto di continui processi di interazione, di scambio così come di conflitto e di confronto con altre culture (altre persone). E che le modalità per convivere con questa complessità ed esprimerla sono la mediazione, la traslazione, l’incorporazione di una molteplicità di punti di vista. Cioè il percepirsi come sistemi selettivamente “aperti” in costante stato di traduzione — dove a essere tradotti sono lingue, visioni del mondo, modi di vita, usi, costumi, tecniche e saperi.
- Perchè Mark Twain e… l’Hotel sono simboli importanti di questo percorso?
“Per la sua biografia mossa e mobile, Mark Twain potrebbe rappresentare uno dei primi esempi di scrittore transociale, anche se forse non ancora transculturale, cioè capace di muoversi attraverso la cultura delle varie realtà sociali con cui si trovò a entrare in contatto, assimilandone elementi essenziali oltre che linguistici (espressioni gergali, slang, etc.). Twain fu capo-battelliere sul Mississippi, cercatore d’oro in California, reporter a San Francisco, docente nelle università americane, editore di grido, speaker acclamato in tour attraverso il globo. Fu anche colui che replicò nel suo romanzo più celebre, Le avventure di Huckleberry Finn, la parlata dei neri d’America, innalzandola a tropo letterario, e che trascrisse, ironizzandovi su per condannarli, i pregiudizi caratteristici della società sudista americana.
L’albergo, in particolare il grand hotel storico, rappresenta una buona metafora per una certa idea di luogo, di stabilità nell’impermanenza. Scrive Brian Castro: “Il grand hotel è molto di più che anonimità, perché i suoi costanti cambiamenti, flussi, avvicendamenti creano l’intimità di un mondo estensibile, di un luogo di transito, di una confluenza di vite”. Rappresenta inoltre quel “terzo luogo” transculturale dove le culture confluiscono e sono ammesse nel rispetto delle loro specificità (anche quando potremmo contrastare ed essere particolarmente critici di certi loro tratti e manchevolezze), nell’impermanenza di un costante viavai ma anche nel rapporto dialettico tra nomadi e stanziali, tra chi parte e chi resta, tra qualità dinamica e qualità statica”.
- Cinque gli scrittori incontrati. Puoi tentare di indicare ognuno con un solo aggettivo e tre righe per sintetizzare il loro contributo al tuo percorso?
Ilija Trojanow: Instancabile. Incarna una certa idea — forse romantica — del viaggio alla scoperta del sé attraverso la scoperta dell’Altro.
Brian Castro: Raffinato. Ogni suo romanzo si legge come un canto, un’invocazione a un altrove estremo, possibilmente spiazzante. Scrive in inglese, sente in cantonese ma pensa e vive esteticamente in francese — la sua terza lingua, la sua terza pelle.
Inez Baranay: Sensibile. Nel suo inglese si percepisce la convivenza prolungata con altre culture e l’abitudine ad adottare i modi di esprimersi dei propri interlocutori, in un’equilibrata ibridazione tra Est e Ovest.
Alberto Manguel: Insaziabile. Raro quanto un incunabolo, prezioso per tutta quella conoscenza acquisita in sei decadi itineranti al servizio della lettura.
Tim Parks: Complesso. Nuota nella scrittura ricercando la confluenza di più mondi, più visioni — in una moltiplicazione di prospettive provvisorie”.
- Istanbul come luogo d’incrocio di Oriente e Occidente… avrebbe potuto essere pure Venezia?
“Avrebbe potuto essere Venezia prima della sua decadenza (in termini geopolitici) e dell’avvento del turismo di massa. Una Venezia che non esiste più, ormai, tanto quanto non esiste più quella Istanbul evocata più come un simbolo, come un’utopia a cui tendere invece che una realtà effettiva…”.
- Questo incrocio di culture è talmente profondo nelle radici della cultura italiana che molti non ne sono consapevoli… di cosa liberarsi (dell’”italianità”) per essere cittadini del mondo, come te?
“Si, raramente ci soffermiamo a considerare — a meno di non essere degli storici — quanto la nostra cultura plurisecolare sia il frutto di tutte le culture con cui, nolenti o volenti, siamo entrati in contatto. La penisola e le isole italiane sono state abitate, conquistate e dominate a più riprese da una molteplicità di popoli (etruschi, celti, greci, arabi, normanni, tribù germaniche, spagnoli, francesi, etc.) e ognuno di loro ha lasciato un’impronta culturale e linguistica che contribuisce a definire il nostro DNA culturale. La nostra italianità è il frutto di questa ricchissima e arricchente serie di permeazioni e stratificazioni culturali. Più che liberarcene dovremmo imparare ad apprezzarla e onorarla per quello che rappresenta. E’ questo che, là fuori nel mondo, ci invidiano e ci contendono. Certo è che per imparare a guardare noi stessi con occhi nuovi, con occhi diversi, bisogna andare là fuori nel mondo e, da quell’altra prospettiva, contemplare tanto le nostre potenzialità quanto le nostre intrinseche manchevolezze (il compiacimento autoreferenziale, il narcisismo individualista, l’anarchismo privo di responsabilità etica collettiva, la furbizia eretta a sistema, etc. etc.)”.
Non si intraprende un percorso così originale e impegnativo senza l’ispirazione di un grande mentore…
“Sì, per me è stato mio padre. Un uomo immobilizzato dal destino, ferito da ragazzino durante la Seconda Guerra Mondiale, per questa menomazione nel primo dopoguerra non riuscì a emigrare in Australia seguendo le orme di suo cugino. Lui mi recitava brani dai suoi autori preferiti — Joseph Conrad, Ernest Hemingway, William Faulkner — tutti scrittori in movimento… Ascoltavamo jazz, mi cantava canzoni in inglese, traduceva per me dal russo (studiato alla bell’e meglio) poesie che amava. Fu lui a instillarmi quel desiderio di altrove, a trasmettermi quello che chiamo “il gene dell’irrequietezza”. Solo molti anni dopo capii che, in qualche modo, avevo fatto della mia vita errante la realizzazione del suo sogno di gioventù”.