Rinnovare con la violenza? No, con donne che sanno ispirare. Cosa ci lasceranno le immagini di Capitol Hill
Forse non accadeva da quasi vent’anni, dall’11 settembre 2001: vedere in mondovisione immagini così forti da lasciare un segno profondo nell’immaginario collettivo globale. Ma questa volta lo stesso scenario, i gradini di Capitol Hill, a Washington, ha fatto da sfondo nel giro di pochi giorni a due quadri profondamente contrastanti, contrapposti.
Il sei gennaio, l’incursione violenta di sostenitori di Trump (quasi tutti maschi bianchi) nel cuore della democrazia americana, che ne ha svelato al mondo un’inimmaginabile vulnerabilità, proprio com’era accaduto con la tragedia del World Trade Center.
Solo due settimane dopo, il venti gennaio, la cerimonia di insediamento dell’amministrazione Biden, rivolta a ripristinare un ammaccato American Dream con messaggi di riconciliazione e di speranza, una liturgia in cui il ruolo di protagonista non è toccato al nuovo presidente ma a icone femminili (multietniche) di incredibile forza: la vicepresidente Kamala Harris, due popstar come Lady Gaga e Jennifer Lopez, la giovanissima poetessa Amanda Gorman.
Con la loro carica metaforica, evocativa, queste immagini ci accompagneranno a lungo. Vale la pena allora di osservarle a fondo, capire cosa le abbia generate, cosa ci sia “dietro”: quelle scene di violenza, quelle donne di successo chiamate a ispirare un Paese ferito.
Ci sono due libri che aiutano a capire l’America di Trump e lo sconcertante epilogo dell’assalto a Capitol Hill.
“Hillbilly Elegy” e l’America che non si vedeva
Uscito poco prima delle presidenziali 2016, “Hillbilly Elegy” di James David Vance, HarperCollins Publishers, in Italia Elegia Americana, Garzanti (gli avevo dedicato un articolo su Linkiesta) è un affresco impietoso e coinvolgente di un pezzetto di quell’America poco visibile, emarginata e rabbiosa salita prepotentemente alla ribalta con l’imprevista vittoria di Trump. Un libro che “fa luce sull’enorme divario culturale della nostra nazione, un tema divenuto molto più rilevante di quanto Vance potesse mai sognare mentre scriveva il suo libro”, aveva osservato Bill Gates, consigliandolo sul suo seguitissimo blog.
Vance racconta in modo impietoso la comunità da cui proviene (si considera forse l’unico ad aver percorso da lì una scalata sociale e culturale che l’ha portato a laurearsi a Yale e a lavorare in una società finanziaria a Silicon Valley). Sinonimo di rozzezza, isolamento, il termine Hillbilly indica la comunità bianca che vive nella zona dei monti Appalachi, chiusa, violenta, che diffida di leggi e istituzioni, segnata dal vittimismo e una rabbiosa rassegnazione alla propria povertà. Ma la loro arretratezza culturale è la causa, non la conseguenza della loro povertà, afferma severo Vance. Che col suo lavoro ha ispirato un acceso dibattito e pure un film (non all’altezza del libro), 2020 regia di Ron Howard, Glenn Close nel cast di prim’ordine, apprezzato dal pubblico e distrutto dalla critica (Elegia Americana, su Netflix).
Violenza come atto fondativo
Il secondo libro, Regeneration Through Violence: The Mythology of American Frontier 1600–1860 è un corposo saggio del 1973, con il quale lo storico e critico Richard Slotkin all’epoca 31enne segnò una pietra miliare nella definizione dell’identità americana, indicandone l’atto fondativo: non lo sbarco dei Padri Pellegrini, nemmeno i principi sanciti dai saggi raccolti attorno a Benjamin Franklin nello stilare la Costituzione americana nel 1776 ma la Violenza. Imporsi con la forza nella terribili sfide di sopravvivenza nella Frontiera dell’ovest, su una Natura ostile, su nativi americani da sterminare o sottomettere e “civilizzare”.
Non si possono capire le ossessioni di quell’America profonda, così diversa da quella delle coste, da New York e dalla California, senza considerare questo imprinting.
Non a caso, del libro di Slotkin si parlò molto proprio dopo l’11 settembre, quando lo shock collettivo sembrò portare a una “regressione” alla semplificazione da western: basta discutere, si risolve tutto alla John Wayne, cazzotti e pistolettate. E le donne? Un alter ego debole da proteggere, a casa a cucinare… un fenomeno esaminato nel 2007 da Susan Faludi, premio Pulitzer 1991, nel suo Il sesso del Terrore. Il nuovo maschilismo americano (ISBN Edizioni), che all’epoca avevo intervistato a San Francisco.
C’è una frase fulminante di Slotkin che Faludi aveva scelto come prologo per il suo libro. Terribilmente attuale, non solo per gli USA, di sicuro anche per l’Italia: “Un popolo che è ignaro dei propri miti, continua per lo più a vivere in base a questi, nonostante il mondo attorno cambi e richieda trasformazioni nella sua psicologia, nella sua visione del mondo, nella sua morale e nelle sue istituzioni”.
Un’idea deformata di “Libertà”
Ossessione delle armi, (che in questi giorni alcuni parlamentari repubblicani pretendono di poter portare anche al Congresso!), libertà individuale senza contrappesi di senso civico, presunta superiorità razziale da difendere dal multiculturalismo, insofferenza per le “intrusioni” della legge e dello stato federale, sino a considerare un diritto inalienabile, da difendere sino alla morte, rifiutare l’obbligo della mascherina, non importa se questo lo trasforma in diritto a contagiare e far morire altri. Sentimenti a lungo contenuti ma mai sopiti in una parte non piccola di America, nei social hanno trovato una gigantesca cassa di risonanza e Trump li ha astutamente alimentati e incoraggiati, senza mai porre limiti nemmeno alle esasperazioni deliranti del complottismo di QNon, nè al suprematismo bianco. Una deriva che le proteste di Black Lives Matter hanno reso lampante, prima ancora che deflagrasse nell’assalto a Capitol Hill.
Non è la prima volta che un malinteso “patriottismo” infierisce su luoghi e simboli della democrazia di quella stessa patria. Quando accade, va chiamato col suo nome: fascismo.
Quattro donne a dare speranza
Due settimane dopo, gli stessi luoghi e simboli violati, che l’America ha dimostrato di non saper proteggere, sono stati teatro della cerimonia d’insediamento del presidente Joe Biden, con quattro straordinarie figure femminili che hanno conquistato la scena.
Sin troppo facile la contrapposizione “multietnica” all’immagine degli invasori di Capitol Hill. Con Lady Gaga, al secolo Stefani Germanotta, famiglia di radici italiane, a eseguire l’inno americano, Jennifer Lopez, origini portoricane, che incrocia “This Land is Your Land” di Woody Guthrie (voce dei diseredati della Grande Depressione e padre spirituale di Bob Dylan) all’inno patriottico “America the Beautiful”, intercalando con un grido in spagnolo: “Una nación, bajo Dios, indivisible, con libertad y justicia para todos!” (una nazione, sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti).
Un’America multietnica rappresentata al massimo livello col suo giuramento, prima vicepresidente di colore, da Kamala Harris, padre giamaicano e madre indiana.
Ma forse l’impatto più emozionante l’ha avuto la poetessa scelta per la cerimonia dalla nuova first lady Jill Biden (scrittrice e filantropa, il nonno siciliano trasformò il cognome Giacoppo in Jacobs).
Laurea ad Harvard, poetessa laureata di soli 22 anni, Amanda Gorman ha incantato per la grazie e l’intensità con cui ha recitato la sua poesia The Hill We Climb (qui testo e traduzione).
Versi come “Quando arriva il giorno, ci chiediamo dove possiamo trovare la luce in questo buio senza fine?” hanno espresso magistralmente il disorientamento di un Paese duramente provato da epidemie e crisi economica, ferito dallo sfregio appena inferto alle proprie istituzioni con quell’incursione violenta in quello stesso luogo della cerimonia.
Ma sono altri versi che invitano a guardare più a fondo, oltre l’immagine di quattro donne straordinarie cui tocca il compito di infondere fiducia e offrire una visione a un Paese smarrito, attraverso l’arte, la poesia, la politica.
“…Noi successori di un Paese e di un tempo in cui una ragazza nera magra discendente da schiavi e cresciuta da una madre single può sognare di diventare presidente, solo per ritrovarsi a recitare per uno di loro”.
Guardare più a fondo significa domandarsi: come si diventa Kamala Harris, Lady Gaga, Jennifer Lopez, Amanda Gorman?
Scienziata indiana, biologa ricercatrice in campo oncologico Shyamala Gopalan a 19 anni ottenne l’accesso a un master in nutrizione ed endocrinologia alla University of Berkeley nel 1958, alternando presto, in quella che fu la culla della contestazione studentesca, all’attività di ricerca quella di attivista per i diritti civili. Fu così che conobbe Donald J. Harris, giamaicano destinato a diventare docente di Economia a Stanford, che sposò nel 1963 per divorziare nel 1970, quando la figlia Kamala aveva sei anni.
“Alla donna che ha la maggior responsabilità per la mia presenza qui oggi: mia mamma, Shyamala Gopalan Harris, che è sempre nei nostri cuori. Quando è arrivata qui dall’India a 19 anni forse non poteva immaginare questo momento. Ma credeva profondamente in un’America, dove un momento come questo è possibile”, ha detto la nuova vicepresidente. Rendendo omaggio a “una generazione di donne, nere, asiatiche, bianche, latinoamericane, native americane che durante la storia della nostra nazione hanno preparato la strada per questa sera. Donne che hanno combattuto e sacrificato così tanto per l’uguaglianza e la libertà e la giustizia per tutti”.
Filantropa, attivista e imprenditrice, Cynthia Germanotta ha creato assieme alla figlia Lady Gaga Born This Way Foundation, fondazione per il benessere dei giovani, focalizzata sulla salute mentale ed emotiva, nominata per questo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità Ambasciatrice di Buona Volontà.
Ha sempre parlato apertamente dei problemi psicologici che la figlia, sin da piccola molto particolare, ha incontrato dai tempi della scuola per la sua unicità: umiliata, derisa, trasformata da bambina felice in ragazzina tormentata, fra depressione e stress post traumatici. Problemi che le famiglie spesso non sono pronte ad affrontare, dice, e che richiedono prima di tutto di saper ascoltare. Lei non è soltanto andata a fondo nel disagio vissuto dalla figlia, assieme a lei l’ha reso pubblico e trasformato in occasione d’impegno civile: assistere giovani e famiglie che vivono questa stessa esperienza di sofferenza.
“Chi mi ha sostenuto professionalmente è stata mia mamma. A lei era stata detta la storia che doveva sposarsi… il suo tempo stava per scadere… e aveva vent’anni!”, ha ricordato Jennifer Lopez a proposito della mamma, Guadalupe Rodriguez, immigrata dal Portorico, principale ispiratrice della sua straordinaria carriera di cantante, ballerina, imprenditrice. Non voglio che dipendiate da qualcuno le diceva, voglio che siate indipendenti.
“E io ho avuto sempre la sensazione di poter fare qualsiasi cosa, che i lavori non hanno un genere, che avrei potuto diventare presidente degli Stati Uniti se avessi voluto… mi ha fatto sognare molto più in grande rispetto ai bambini con i quali stavo crescendo”.
Mamma single e docente d’inglese alla periferia di Los Angeles, Joan Wicks ha ottenuto master e dottorato mentre allevava tre bambine. “Lei mi ha ispirato ogni giorno a migliorare l’istruzione non solo per me ma anche per altri studenti attorno a me”, ha detto di sua madre Amanda Gorman, poetessa laureata di 22 anni che con la sua poesia recitata alla cerimonia di insediamento dell’amministrazione Biden è diventata una celebrità mondiale.
La passione per la letteratura come forma espressiva e di riscatto l’ha portata a creare la fondazione One Pen One Page dedicata a dar voce alla scrittura giovanile. Mentre per lei il percorso di formazione ispirato dalla madre è passato attraverso la consapevolezza di diversità e discriminazioni, che la poesia aiuta a combattere: “Mia mamma non ci girava attorno. Quando sei una bambina nera che cresce in America, i nostri genitori devono fare quel che chiamiamo ‘il discorso’. Solo che non riguarda gli uccelli e le api e i nostri corpi che cambiano, riguarda la potenziale distruzione dei nostri corpi. Mia mamma ha voluto che fossi preparata a crescere con la pelle nera in America, e questa è stata la prima presa di coscienza del clima politico nel quale stavo entrando”.
Abbattere gli ostacoli e coltivare il talento
Di Capitol Hill dunque ci restano immagini contrastanti. Di violenza, da combattere. Ma anche di ispirazione e speranza, da coltivare.
Forse la lezione più preziosa però viene da persone che su quella scena non sono comparse: Cynthia Germanotta, Guadalupe Rodriguez, Joan Wicks e la scomparsa Shyamala Gopalan, mentori straordinarie capaci tutte di educare e forgiare figlie eccezionali, insegnar loro a non aver paura, a non porsi limiti e a sognare, più degli altri.
E’ proprio quello di cui oggi più che mai noi tutti abbiamo bisogno: abbattere gli ostacoli per gli altri, liberare il loro talento e ispirare quelli che vengono dopo di noi. Saranno loro a scoprire domani quel che noi oggi non sappiamo: come rendere il mondo un posto migliore.