Guardare ed essere: quella mania di girare video che stravolge l’idea di chi siamo

Roberto Bonzio
5 min readMay 24, 2022

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Un episodio della serie “Black Mirror” e una scena di “L’occhio che uccide” (1960 di Michael Powell)

“Non conta quello che guardi. Conta quello che vedi”.

H. D. Thoreau

E’ solo un attimo, difficile da cogliere anche al rallentatore. In un vecchio film che ieri ho rivisto dopo tanto tempo, fuori dal contesto compare per un istante una mano che alza un velo davanti alla cinepresa, gesto simbolico, perchè la scena è di autentico svelamento: noi sappiamo dall’inizio che il protagonista, un bel giovane dall’aria timida è un killer sociopatico, in quel momento a capire per prima chi sia davvero quel ragazzo, che piace alla figlia, è una donna cieca, che proprio perchè priva della vista ha affinato gli altri sensi e guidata dall’istinto, in lui riesce a “vedere” un’essenza diversa dall’apparenza rassicurante, che inganna tutti gli altri.

Stroncato alla sua uscita che fece scalpore da critica e pubblico, considerato oggi da molti un capolavoro della storia del cinema, “L’occhio che uccide” (Peeping Tom, 1960) del regista britannico Michael Powell è un inquietante thriller psicologico e racconta l’ossessione che trasforma un giovane guardone, che spia e riprende con la telecamera da cui non si separa mai ogni attimo della sua vita, in un sadico assassino, eccitato dal filmare il terrore altrui, vittima a sua volta di un padre scienziato crudele che lo usava da bambino come cavia proprio per esperimenti neurologici sulla paura (cosa rara, il film in un’edizione italiana di buona qualità, è disponibile gratuitamente su YouTube).

“L’occhio che uccide” (Peeping Tom), 1960 di Michael Powell

Non è che uno dei tanti incredibili casi in cui l’arte e la fantasia hanno anticipato qualcosa destinato a rivelarsi come fenomeno sociale nel futuro, che è il nostro presente.

Nei giorni scorsi, a Buffalo negli USA un feroce killer teenager, suprematista bianco, ha compiuto una strage di cittadini afroamericani riprendendola con una videocamera sul casco che l’ha diffusa in diretta online Non che sessant’anni dopo la mania di fissare immagini e riprendersi ci stia trasformando tutti in pericolosi assassini. Ma l’abitudine a riprendere e riprendersi col telefonino in ogni situazione sta mutando profondamente a livello collettivo la percezione di sè, deformandola ben oltre la smania di apparire, che ha dilatato il narcisismo a fenomeno di massa. Quasi che il poter registrare immagini ci relegasse tutti al ruolo di spettatori, che ambiscono ad affermarsi catturando l’attenzione di altri spettatori e abdicando al ruolo di protagonisti attivi, che in alcuni casi possono e devono intervenire, non stare a guardare.

Come un videogioco ma è una strage vera: le immagini diffuse online dal giovane killer di Buffalo

Nei giorni scorsi, alcune ragazzine hanno aggredito violentemente una coetanea in una scuola di Perugia,circondate da compagni che riprendevano la scena, nemmeno sfiorati dall’idea di soccorrere la vittima, semmai eccitati (qualcuno accenna persino a passi di ballo mentre si consuma una violenza) all’idea di comparire in una scena che potrebbe diventare virale.

Frammenti del video dell’aggressione a Perugia, ripresa da ragazzi che non hanno pensato a difendere la vittima

Qualche giorno dopo, la morte di Mourad Lamrabatte, ex calciatore olandese che si è tuffato da una scogliera alta trenta metri a Maiorca finendo sulle rocce, è stata ancora più sconcertante. Non solo il terribile video, girato dalla moglie che doveva immortalarne l’impresa, ha registrato le urla di disperazione della donna. L’autopsia ha stabilito che l’uomo è morto per annegamento, finendo in acqua tramortito dopo l’urto: per un’impresa così azzardata “in favore di telefonino” il malcapitato dunque non aveva previsto che nel caso fosse caduto in acqua ma malamente, ci dovesse essere nei paraggi una barca di soccorso, che forse avrebbe potuto salvargli la vita.

La bellissima frase citata all’inizio di Henry David Thoreau (1817–1862), filosofo americano, scrittore e pioniere della disobbedienza civile e dell’ecologismo, grande ispiratore per la cultura americana e per apostoli della nonviolenza come Gandhi e Martin Luther King, rimanda a una capacità di abbinare lo sguardo a una consapevolezza: non solo interpretare l’immagine che gli occhi inviano al cervello, pure guardare oltre e saper cogliere suggestioni visionarie: non solo quel che è ma quel che potrebbe diventare. In qualche modo è quel che ha fatto pure Michael Powell più di sessant’anni fa, con uno stile antinaturalistico, “cinema che si nutre di cinema”, colori saturi, personaggi estremi, che ha ispirato maestri della New Hollywood come Francis Ford Coppola, Brian De Palma e Martin Scorsese.

Il killer psicopatico di “L’occhio che uccide” non si accontenta di filmare le proprie vittime, vuole che esse stesse vedano il proprio terrore davanti alla morte, ponendo uno specchio deformante sotto la sua cinepresa. E in un mondo deformato dall’ossessione del riprendere e condividere si muovono i protagonisti di due inquietanti episodi di una popolare serie su Netflix. In “White Bear” (Orso bianco), una donna vive l’incubo della solitudine, circondata da persone con cui è impossibile interagire, tutte prese dal riprendere il mondo con un cellulare. In“Nosedive” (Caduta libera) è di nuovo l’isolamento la sorte di una ragazza che vede all’improvviso precipitare la propria popolarità sui social, in una società in cui la vita di ognuno è costantemente segnata dal gradimento degli altri registrato con i telefonini.

Un’immagine di “White Bear” (Orso Bianco), episodio della serie Black Mirror, su Netflix

La serie, bellissima e inquietante, l’avrete capito, è Black Mirror (annunciata da poco la sesta stagione). Lo Specchio Nero è quello dei nostri telefonini spenti, che come quello usato dal killer di “L’occhio che uccide” possono rimandare un’immagine di noi deformata, quando l’ossessione del “guardare” ci fa dimenticare che prima che spettatori siamo protagonisti attivi, che la consapevolezza, che ci fa “vedere” oltre quel che guardiamo, che l’empatia nei confronti degli altri devono guidare il nostro essere: umani.

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Roberto Bonzio

"Giornalista curioso", storyteller, autore del progetto Italiani di Frontiera