Da Netflix ad Harlem a… Netflix. Donne alla ricerca di se stesse sulla frontiera dell’identità, negata dal colore della pelle
Due giovani donne, un incontro fortuito, “fuori posto”: la sala da the di un hotel di lusso di New York, che sarebbe a loro precluso. Perchè sono afroamericane e sono gli Anni Venti. La segregazione razziale è ancora una regola, che loro aggirano grazie al fatto di avere la pelle chiara. Una di loro fa parte della borghesia agiata di Harlem e s’intrufola con imbarazzo in negozi e locali vietati ai neri. L’altra, quasi irriconoscibile, ha rimosso le proprie origini al punto di nasconderle pure al facoltoso razzista diventato suo marito. Da ragazze erano amiche, ritrovarsi come allo specchio, donne che fingono di essere quel che non sono, scatena in tutte e due una crisi profonda e sconvolgente, sulla propria identità, culturale e razziale, sulle barriere dei condizionamenti sociali che hanno forzato le loro scelte.
“Due donne- Passing”, su Netflix da fine ottobre è un piccolo gioiello in bianco e nero, splendide pure fotografia e colonna sonora, con due bravissime protagoniste, Ruth Negga e Tessa Thompson. “Passing” sta per “farsi passare”, fingersi qualcosa di diverso da quel che si è. E può diventare porta d’ingresso di un affascinante percorso a spirale su identità e dolorosa ricerca di se stesse.
Rebecca, icona bianca e i misteri sul nonno
“Ma… il nonno era afroamericano? O nativo americano?”
Quella domanda era ancor più insolita, visto che a porla era una ragazza britannica dalla pelle bianchissima, destinata a diventare, da attrice, icona di femminilità eterea, tratti scolpiti simili ai ritratti di Modigliani. Al suo fortunato esordio come regista con “Passing”, figlia di un regista teatrale famosissimo, Peter Hall, fondatore della Royal Shakespeare Company, Rebecca Hall è divenuta con “Viky Cristina Barcelona” di Woody Allen che le valse una candidatura al Golden Globe 2009 come miglior attrice. A quella sua domanda sul nonno, la madre Maria Ewing, cantante lirica originaria di Detroit, separata dal padre quando lei aveva otto anni, non aveva mai saputo rispondere. “Quando guardavo mia madre, per tutta la mia vita, ho pensato che sembrasse nera”, ha ricordato l’attrice: malgrado la pelle della madre fosse chiara, quei lineamenti erano tipici degli afroamericani. Ma di quel nonno, ingegnere con la passione per la musica che aveva ispirato il percorso della figlia, divenuta una star dell’opera, non riusciva a sapere molto di più.
Trasferirsi per lavoro negli USA, ricorda la Hall in un articolo su Vogue, ebbe un effetto liberatorio, per una giovane attrice cresciuta in una scena artistica britannica in cui il celebre padre era una presenza ingombrante. Lei lo fece nel 2008, anno della prima elezione di Barack Obama, e quei cambiamenti furono determinanti per indurla a indagare sulle origini della famiglia. Solo allora la madre iniziò a rievocare una serie di spiacevoli episodi di discriminazione razziale subiti da giovane e che faticava a comprendere.
E’ a quel punto che un’amica le consiglia la lettura di “Passing” (in italiano uscito con Sellerio, 1995), romanzo di successo del 1929 che una dozzina d’anni dopo porterà sullo schermo all’esordio da regista. Con una storia che rispecchia quella della scrittrice che ne fu l’autrice.
Nella in un “limbo” tra bianchi e neri
Figlia di immigrati di origine danese, Nella Larsen (1891–1964) aveva colore della pelle e lineamenti afrocaraibici ereditati dal padre proveniente dalle Indie Occidentali, scomparso quand’era giovanissima. Era cresciuta in una sorta di “limbo identitario”: non era bianca come la mamma e la sorella e subiva discriminazioni dagli immigrati europei. Ma era estranea pure al mondo e alla cultura degli afroamericani, come i suoi compagni di studi in una delle prime università per neri a Nashville, Tennessee, tutti discendenti di ex schiavi degli stati del Sud segregazionisti. Infermiera e bibliotecaria, anche se la sua produzione letteraria fu limitata è considerata forse la figura più importante di quello che fu definito Harlem Renaissance. Apprezzati dai contemporanei, i suoi lavori, per i quali fu la prima donna di colore a ricevere la prestigiosa borsa di studio Guggenheim Fellowship, sono stati oggetto di profondo revival da fine Novecento, quando i temi dell’identità razziale e sessuale sono diventati di primo piano.
“Spero che tutte le persone che vedranno il film si pongano il problema di quali siano le eredità emotive di una vita passata a nascondersi”, ha osservato ancora su Vogue Rebecca Hall, riconoscendo nei tormenti descritti dalla Larsen quelli della sua stessa famiglia. Che invece di coltivare la propria storia (con tanto di antenato che fu tra i pochi soldati afroamericani al fianco di George Washington nella Rivoluzione Americana) ha tramandato la negazione del proprio passato.
Rinnegare la mamma di colore, in quel melò a Hollywood
Proprio l’identità rimossa, giocando col tema dello specchio, è il cuore di una delle pietre miliari di Hollywood, “Imitation of Life” (1959, Lo specchio della vita in italiano), di un grande regista come Douglas Sirk, tedesco fuggito dal nazismo con la moglie attrice ebrea, cancellando il suo vero nome: Detlief Sierck. Una delle migliori interpretazioni di una star come Lana Turner, anche se le protagoniste sono Juanita Moore e Susan Kohner nei panni di una donna afroamericana e della figlia dalla pelle chiara, che nel suo percorso di successo in una società bianca arriva a rinnegare l’ingombrante figura della madre nera, sino al pentimento tardivo in una straziante scena finale, con tanto di coro impreziosito dalla voce di Mahalia Jackson
Rachel, che si sentiva nera e voleva sembrarlo
Negare le proprie origini biologiche al punto di inventarsi un’identità diversa è quanto ha fatto la protagonista di un bel documentario, sempre su Netflix, The Rachel Divide (2018), che rievoca l’incredibile storia di Rachel Dolezal (che oggi si fa chiamare Nkechi Amare Diallo). A lungo figura di primo piano del movimento per i diritti civili degli afromaericani, nel 2015 si scoprì che i sospetti di molti erano fondati: Rachel NON era afroamericana. Era una ragazzina bionda, con gli occhi azzurri, quando decise che “si sentiva” nera, divenne paladina della causa antidiscriminazione trasformando il suo aspetto. Molto più di un semplice caso di impostura: Rachel era figlia di genitori cristiani integralisti che a suo dire infierivano sistematicamente sui tre ragazzini afroamericani adottati, suoi fratellastri con cui solidarizzava. Di lì è iniziato il processo che l’ha portata a riconoscersi in un’identità (culturale ma anche emotiva) diversa, al punto da prenderne pure le sembianze.
Quando il suo “Passing” (spacciarsi per qualcosa di diverso) è stato scoperto, lei ha ammesso, ha raccontato tutto e si è dimessa dagli incarichi che ricopriva, raccontando in un libro, “In Full Color Finding My Place in a Black and White” World”, la propria storia. Ma come figura pubblica è stata massacrata, sepolta da commenti feroci, molti da giovani afroamericani che non hanno visto empatia ma solo impostura nella sua scelta.
Sono passati solo pochi anni ma il tema dell’identità “percepita” è diventato ancor più attuale, non solo negli episodi di discriminazione razziale e integrazione degli immigrati ma anche a proposito di identità sessuale. Non è più solo questione di “bianco o nero” l’essere, e sentirsi, qualcosa di profondamente diverso dal proprio io biologico. Una prospettiva diversa, sulla storia di Rachel, sul significato stesso di “Passing”.